Le banche hanno progressivamente abbandonato la funzione "sociale" del prestito a famiglie e imprese per spostarsi su altri settori economici più lucrativi.
Tali, per esempio, sono quelli della vendita di prodotti finanziari, titoli e sperequazioni borsistiche.
Quando il cliente si presenta presso il funzionario della locale filiale per chiedere un prestito, viene invitato a presentare la propria dichiarazione dei redditi o i bilanci dell'attività commerciale. Che, come spesso accade, non corrispondono alla situazione reale: senza peli sulla lingua, gran parte dell'Italia vive grazie al "nero", e quindi i documenti inviati all'Agenzia delle Entrate non sempre fotografano l'effettiva condizione economica del contribuente. Consapevole di ciò, e desiderosa di partecipare alla spartizione della torta, la banca inizia a storcere il naso e a far comprendere al cliente che, con quella dichiarazione dei redditi/bilanci, non è possibile erogare alcun prestito. Allora il consumatore si rivela, fa presente di avere delle "liquidità non dichiarate". Così, inconsapevolmente, cade nella trappola.
La banca gli propone un investimento, una polizza vita, un fondo o l'acquisto di titoli in garanzia con appoggio su un conto corrente: tutti prodotti coi quali i bilanci delle banche si arricchiscono enormemente, più ancora dei semplici interessi sui prestiti. Insomma, si va al supermercato per compare la carne fresca e si esce fuori con un carrello pieno di altri articoli non necessari.
Certamente, in questi casi, per come spiegato dalla giurisprudenza, tutti i costi dei servizi aggiuntivi si sommano agli interessi praticati sul mutuo e se dal risultato escono fuori dei tassi oltre l'usura, si può ricorrere al giudice. Ma è sempre necessario pagare un avvocato e attivarsi in una causa dalla quale non si sa quando si potrà uscire. Senza contare che, nel frattempo, l'azienda magari fallisce.
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